Piazzetta Giorgio Bocca

covid19 Una piazza per Giorgio Bocca. Una proposta per ricordarlo


A cento anni dalla nascita e a dieci dalla scomparsa, per i festeggiamenti del 25 aprile 2021, la giornata della liberazione, l’Associazione Culturale Dragone vorrebbe rendere omaggio a Giorgio Bocca (Cuneo, 28 Agosto 1920 – Milano, 25 dicembre 2011) e propone al Comune di intitolargli l’attuale piazzetta Brofferio, il nuovo grazioso angolo di Dronero, recentemente riqualificato e trasformato in zona pedonale. Con questa iniziativa desideriamo ricordare l’impegno civile e politico di Giorgio Bocca, partigiano di Giustizia e Libertà, che combatté tra il 1943 e il 1945 in Valle Grana e Valle Maira, e trattò con i fascisti per la liberazione di Dronero, il 26 aprile del ’45, all’interno della sala Consiliare del Comune.

Come ha scritto recentemente Ezio Mauro, gli anni della Resistenza per Giorgio Bocca furono “un’iniziazione civile, la scoperta del sé politico, la lezione di Duccio Galimberti e l’idea di una riconquista della democrazia”, valori fondamentali, che portò con sé durante tutta la sua lunga carriera giornalistica.

In alternativa a piazzetta Brofferio si potrebbe pensare all’ala est del Teatro Iris, di fianco a piazzetta Allemandi, dove nel 1975 Bocca tenne una conferenza per ricordare gli anni della Resistenza, e altrettanto fece nel 2005, sul palco del teatro. Giorgio Bocca non dimenticò mai Dronero, “dove – scrisse nel 2008 – in un mattino sereno tu vedi, là in alto, sulla montagna del Cauri, una macchia bianca di case che ha per nome La Margherita, ed è la frazione alpina in cui ebbe la sede, il comando e la fortuna la seconda divisione Giustizia e Libertà, senza la quale non avremmo fatto la guerra partigiana e pagato il nostro biglietto di ritorno alla democrazia.”

RD

XX Settembre 1870

covid19 Il 20 Settembre di 150 anni fa i Bersaglieri di LaMarmora entravano a Roma dopo che l’artiglieria aveva aperto una breccia nelle mura aureliane, nei pressi di Porta Pia.


Era la fine del Potere Temporale del Papato, che per circa mille anni aveva ostacolato prima, e osteggiato poi, l’unificazione d’Italia. Nel secolo XIX la Francia imperiale si era assunta il ruolo di protettrice del Papato, reprimendo duramente la rivoluzionaria esperienza della Repubblica Romana di Mazzini, Saffi, Armellini e difesa da Garibaldi, ma nel 1870 Napoleone III fu duramente sconfitto dalle armate prussiane a Sedan, l’Imperatore costretto all’esilio e Parigi occupata dopo un durissimo assedio . Era il momento giusto per andare oltre gli accordi di Plombieres e il neonato Esercito del Regno d’Italia attaccò Roma, difesa dai mercenari Svizzeri, che ancora oggi si occupano della difesa dello Stato del Vaticano. Roma divenne la Capitale d’Italia e il Papa si rinserrò dentro la cerchia delle mura Leonine, ne uscirà solo nel 1929 dopo la firma dei Patti Lateranensi tra il Cardinal Gasparri e l’allora Presidente del Consiglio, Benito Mussolini.

Dronero si trovò in prima fila nello storico evento con il Conte Gustavo Ponza di S.Martino, Ambasciatore del Regno d’Italia presso lo Stato Pontificio. Fu lui a consegnare la lettera ultimatum a Pio IX che nel leggerla risposte con la storica frase “Non possumus”. La statua che lo ricorda, da più di un secolo, fa compagnia ai cittadini droneresi davanti al Teatro, per tutti è affettuosamente “el ciciu”. I Ponza di SanMartino-Faà di Bruno ancora oggi abitano il bellissimo palazzo adiacente all’Asilo Parrocchiale.

Sulla facciata di una casa che delimita piazza XX Settembre c’è una bella lapide commemorativa che risale al 1895, venne messa in posa in occasione dei 25 anni, anno in cui la piazza comunemente denominata “piazza nuova” assunse per l’appunto la denominazione di Piazza XX Settembre. Questa lapide marmorea, parzialmente esposta alle intemperie, non si sa perchè, ma è rimasta un po’ negletta. Il recente restuaro delle lapidi droneresi, non l’aveva presa in considerazione.

L’Associazione Dragone ha deciso di adottarla e di farsi carico dell’opera di restauro che ha affidato ad una società specializzata che collabora con il Centro di Restauro Lapideo della Venaria Reale. L’iniziativa è completamente autofinanziata.

Il Comune, come già fece per l’iniziativa delle Pietre d’Inciampo, ha assicurato il supporto dell’Ufficio tecnico e tra poco inizierà il restauro. Riportiamo un estratto della relazione tecnica degli esperti che eseguiranno l’intervento:

L’intervento di restauro qui proposto avrà come soggetto la Stele lapidea commemorativa degli avvenimenti accaduti a Roma il 20 Settembre 1870, giorno in cui l’esercito italiano prese Roma dopo la breccia di Porta Pia, ponendo fine allo Stato Pontificio e dando l’avvio al dibattito sul laicismo dello Stato. L’opera trova collocazione nel comune di Dronero, in Piazza XX Settembre, murata all’interno l’edificio di angolo che si posiziona fra la Piazza e via Roma. Come cita l’incisione dedicatoria (“Nel festeggiato vigesimo quinto anniversario…”) l’opera è stata collocata nella Piazza verosimilmente nel 1895, in occasione dei festeggiamenti dei 25 anni della ricorrenza, durante i quali la Piazza ha assunto nuovo nome, Piazza XX Settembre appunto.

Al 1971, centenario di Roma Capitale, risale invece la seconda porzione del manufatto, ossia la fascia orizzontale polilobata, accostata al lato inferiore della stele. Misure: 98 cm largh. X 115 cm alt.

OBIETTIVI DEL PROGETTO: Per garantire una migliore e più corretta fruizione dell’opera si propone, coerentemente con quanto previsto dal Codice di riferimento (d.lgs. 42/2004 e successive modifiche ed integrazioni), nel pieno rispetto dei materiali costitutivi originali e della deontologia professionale, la realizzazione di un intervento di restauro volto al migliore recupero degli originali valori identitari (storici e artistici), nell’ottica di assicurarne un’ottimale conservazione nel tempo.

STATO DI CONSERVAZIONE: Il manufatto in questione si presenta in discrete condizioni conservative. L’attuale collocazione, caratterizzata da un intenso traffico veicolare che proietta sulla superfici un costante flusso di particolato atmosferico (miscela inquinante complessa di particelle solide e liquide di sostanze organiche ed inorganiche sospese in aria), nonché la diretta esposizione alle intemperie, non rappresenta un ambiente espositivo idoneo per una corretta conservazione, rimanendo seppur imprescindibile il messaggio primario e lo scopo ultimo con cui la stele è stata applicata.

In seguito ad un’attenta osservazione da terra si può notare l’alone giallo-arancione di alterazione cromatica che interessa la quasi totalità delle superfici, forse riconducibile a qualche tipo di fissativo, applicato in occasione di un precedente intervento di manutenzione, ormai alterato o ad un fenomeno di degrado differenziale a cui il litotipo costitutivo è naturalmente soggetto. La lastra lapidea principale si presenta al tatto leggermente decoesa. Nel complesso un importante impoverimento della rubricatura originaria inficia negativamente sulla buona lettura dell’opera.

Difficilmente arriveremo a rispettare la data del 20 Settembre, ma tutto sommato poco importa, la cosa importante è provvedere al recuperato di una testimonianza importante di storia cittadina che si incrociò con i grandi avvenimenti della storia nazionale nel secolo XIX.

La recente ristrutturazione della piazza completa, nel migliore dei modi, lo scenario.

Massimo Monetti

Via Brofferio

ce valle Piccola via del centro storico dedicata ad un personaggio del Risorgimento, Angelo Brofferio, personaggio anticonformista e anticlericale nel Piemonte del primo ‘800.


Nacque in provincia di Asti nel 1802, emulo di Alfieri, fu oppositore della monarchia e del liberalismo di Cavour, per le sue idee venne allontanato anche dall’Università. Nel 1835 divenne Direttore del giornale Il Messaggiere Torinese, nel 1848 venne eletto nel Parlamento Subalpino,appoggiò la causa della repubblica Romana e fu il difensore del generale Ramorino accusato di non aver obbedito agli ordini ricevuti, durante la battaglia di Novara, e di essere stato la causa della sconfitta. Perse la causa e il Generale venne fucilato. Grande oppositore di Cavour, si schierò contro i suoi progetti di industrializzazione del Piemonte e contro la partecipazione alla guerra di Crimea.

Nelle elezioni politiche del 1865, che si svolsero il 22 ottobre (1º turno) e il 29 ottobre (ballottaggi), Angelo Brofferio, appartenente alla Sinistra Storica, venne eletto al Parlamento (la capitale si era da poco spostata a Firenze) quale rappresentante del collegio di Dronero. Morì l’anno dopo, 1866, a Minusio, in Canton Ticino.

I lavori di rifacimento del manto stradale hanno rimesso all’onor del mondo questo piccolo angolo di Dronero, carico di anni e di storia. Speriamo che, come già successo per altre vie del centro storico, il miglioramento dell’arredo pubblico funzioni come incentivo, per i proprietari delle case che vi si affacciano, a continuare ad investire nei loro immobili.

R.D.

Il “Discorso di Dronero”

giolitti Sono trascorsi 100 anni da quando il Sen. Giovanni Giolitti tenne, nel Teatro di Dronero, un discorso che è passato alla storia come “Il Discorso di Dronero”.


Era il 12 Ottobre 1919, la Grande Guerra era finita da poco meno di un anno e il mondo era cambiato. Giolitti, ormai settantaseienne, si presentava alle imminenti elezioni non più come dominus del suo storico collegio elettorale di Dronero e Valle Maira, ma nel collegio più ampio di Cuneo. Era cambiata la legge elettorale che ora allargava a tutti i cittadini che avevano partecipato alla guerra, il diritto di voto, in pratica un quasi suffragio universale maschile. Si affacciava così alla politica una parte consistente della popolazione italiana e di conseguenza cambiarono consolidati equilibri politici. La componente liberale, cui Giolitti storicamente apparteneva, ne uscirà sconfitta, mentre saliranno alla ribalta il movimento socialista e quello popolare, di ispirazione cattolica.

Il discorso fu molto articolato e per certi spunti molto criticato dalla stessa componente liberale, tanto che Giolitti si guadagnò l’epiteto di “bolscevico dell’Annunziata” (riferimento al Collare dell’Annunziata, massima onorificenza reale dell’epoca, ndr). La guerra era stata vinta, Giolitti però non rinunciò a ricordare, e difendere, la sua posizione critica nei confronti dell’Interventismo e di grande a favore nei confronti della trattativa “Osservavo, d’altra parte, che, atteso l’enorme interesse dell’Austria di evitare la guerra coll’Italia, e la piccola parte che rappresentavano gli Italiani irredenti in un impero di cinquantadue milioni di abitanti, si aveva le maggiori probabilità che trattative bene condotte finissero per portare all’accordo. Di più consideravo che l’Impero austro-ungarico, per le rivalità fra Austria e Ungheria, e soprattutto perché minato dalla ribellione delle nazionalità oppresse, Slavi del sud e del nord, Polacchi, Czechi, Sloveni, Rumeni, Croati, Italiani, che ne formavano la maggioranza, era fatalmente destinato a dissolversi, nel quel caso la parte italiana si sarebbe pacificamente unita all’Italia”.

Ribadì due argomenti a lui cari, l’elevatissimo costo economico della guerra che portò il debito pubblico da 13 a 94 miliardi, ed il malaffare che circondò il mondo delle commesse belliche. “Il fenomeno forse più ripugnante al quale abbiamo assistito durante la guerra fu il contrasto che presentavano, da un lato, il valore, la serenità, il nobilissimo spirito di sacrificio dei combattenti, e la mirabile resistenza del Paese a tutte le sofferenze materiali e morali; e, dall’altro, la crudele, delittuosa avidità di denaro che spinse uomini già ricchi a frodare lo Stato imponendo prezzi iniqui per ciò che era indispensabile alla difesa del paese; a ingannare sulla qualità e quantità delle forniture con danno dei combattenti; e a giunger fino all’infamia di fornire al nemico le materie che gli occorrevano per abbattere il nostro esercito”.

Mosse una critica molto decisa contro la monarchia in merito alle sue prerogative e alla cattiva gestione del patto di Londra, in cui si prevedeva la cessione di Fiume alla Croazia quando “Questa rinuncia, ingiustificabile perché fatta in un momento nel quale i futuri alleati nulla avrebbero negato all’Italia”. La rivendicazione del ruolo centrale del Parlamento è senza dubbio uno degli argomenti più innovativi del discorso, segno dei tempi che cambiano, del suffragio universale che è ormai realtà, e della necessità conseguente che il Parlamento abbia più potere.

“Mentre il potere esecutivo non può spendere una lira, non può modificare in alcun modo gli ordinamenti amministrativi, non può né creare né abolire una pretura, un impiego d’ordine, senza la preventiva approvazione del Parlamento, può invece per mezzo di trattati internazionali assumere, a nome del Paese, i più terribili impegni che portino inevitabilmente alla guerra”. Questa decisa presa di posizione a favore del ruolo del Parlamento denuncia anche i limiti della politica giolittiana nell’affrontare la crisi ormai prossima legata all’avvento del movimento fascista, ovvero la convinzione di riuscire comunque a gestire il movimento una volta entrato nel Parlamento. La storia ci racconta che non fu così.

Evidentemente come uomo dell”800 non aveva ben compreso il ‘900 delle ideologie che avanzava, anche se la sua apertura all’Internazionale del Lavoro, che tante critiche gli valsero dai suoi, rivela una genuina spinta innovativa. “Nel campo internazionale vi è pure una grande forza, sempre crescente, sul concorso della quale si può fare assegnamento per mantenere la pace, ed è l’accordo internazionale delle classi lavoratrici. A molti conservatori, di corta vista, questi accordi sembrano pericolose organizzazioni, mentre invece questi rapporti internazionali fra le classi sociali che dalla guerra risentirebbe i maggiori danni, sono anzitutto mezzo efficacissimo per neutralizzare ogni fermento di odio fra i popoli; sono forze che possono controbilanciare le tendenze imperialiste; e organizzando internazionalmente le condizioni di lavoro, tenendo a sopprimere nel campo economico molte cause di ostilità tra i popoli ”

Propositivo e concreto, da buon subalpino, Giolitti individua anche la cura per la società italiana, un deciso riequilibrio della bilancia commerciale (produrre di più, oggi si userebbe la parola crescita), ma per riuscire nello scopo secondo Giolitti assume un ruolo strategico la formazione. Formazione tecnico-scientifica, seguendo un po’ la tradizione germanica, cultura a cui Giolitti era molto vicino ”la parte principale dell’insegnamento di Stato dovrebbe, in tutti i gradi, essere l’istruzione veramente pratica, sapientemente specializzata, alla testa della quale l’alta istruzione tecnico-scientifica, industriale ed agricola, con larghi mezzi di studio e di esperimenti, diretta a scopi veramente pratici, così che vi si interessi e vi contribuisca l’alta industria, e organizzata in modo da attrarre all’insegnamento le migliori intelligenze del paese”. Interessante anche un passaggio in cui auspica che le cattedre siano a tempo “il professore che non si tiene al corrente di ogni nuovo passo della scienza diventa un ostacolo al progresso del Paese e deve essere messo a riposo. A tal fine non esiterei a stabilire che queste cattedre si rimettano ogni dieci anni a concorso”, tema ancora oggi più che mai attuale, ardita la soluzione proposta.

Questo discorso è ricordato nei libri di storia, rappresenta uno dei documenti più significativi del dibattito politico del dopoguerra italiano. Testimonia la fine dello stato liberale, nato dal Risorgimento, nei confronti del nuovo che avanza, verso cui Giolitti fa importanti aperture, ma rispetto al quale si troverà nell’impossibilità di dare un seguito di attuazione pratica alle sue innovative intenzioni.

Il Centro Giolitti, nel cui archivio vi è una delle copie, originali, che vennero stampate del Discorso, ne sta programmando la ristampa da presentare in apposito evento dedicato al centenario di questa importante ricorrenza.

MM

Per un fazzoletto di terra

nuto revelli Dal n.95 della rivista “Il presente e la Storia” dell’Istituto Storico della Resistenza


Espressione usuale questa, aspirazione profonda, fino a qualche decennio fa, del nostro mondo rurale, contadino anche dentro le cinte urbane. Oggi suona distante, sa di sussidiario scolastico degli anni Cinquanta, eppure … sono queste le prime emozioni che ci assalgono fin dalla copertina dell’ultimo numero, il 95, de IL PRESENTE E LA STORIA, rivista semestrale dell’Istituto Storico della Resistenza e della società contemporanea di Cuneo. Un volume ponderoso (trecento pagine) di studi sul mondo rurale cuneese nel Novecento.

La pubblicazione, che intende onorare la memoria di Nuto Revelli nel centenario della nascita, comprende un’introduzione e ben otto, densi saggi su aspetti centrali del nostro mondo contadino, nelle sue specificità e nei suoi tratti comuni a gran parte d’Italia, per un lungo periodo che muove dalle prime indagini tardo ottocentesche (Casalis, Jacini…) per giungere alla fine stessa di quel mondo, simbolicamente, e in parte di fatto, assorbito dalla Michelin. Troppo poco qui lo spazio per ripercorrerne trama e struttura, ma sufficiente forse per invogliare il lettore ad un percorso a dir poco suggestivo.

Un primo, sintetico saggio di Marco Bernardi affronta la nuova relazione degli storici col mondo contadino dopo l’apporto magistrale di Nuto Revelli alla conoscenza dal basso di un universo che muta attraverso i traumi feroci delle guerre ed una dolente esperienza di emigrazione Oltralpe, per giungere all’abbandono di una realtà destinata alla sconfitta e forse all’oblio. Una traccia profonda che ha posto un’esigenza di riflessione critica che va ben al di là dell’abitudine statistica ed erudita consegnataci dalle ricerche ottocentesche e dall’ottimismo degli anni del boom economico.

Due saggi, l’uno di Fabio Milazzo, l’altro di Alessandra Demichelis, aprono orizzonti demistificanti sul “buon tempo antico”, sulle “buone condizioni di salute” dei nostri bisnonni e trisavoli, sui buoni sentimenti e sulla tranquillità sociale della nostra provincia. Il primo guarda al manicomio di Racconigi, punto di arrivo di vite deprivate, specchio di una miseria materiale fatta di pellagra, alcolismo, cedimento nervoso a fatiche disumane, la seconda all’universo criminale, ai drammi personali e familiari, alle vittime di eventi crudeli, a volte efferati. In questa narrazione, frutto di ricerche e studi decennali e che troverà presto un autonomo spazio editoriale, appare in tutta la sua verità la dimensione di una violenza su soggetti deboli e spesso su sé stessi, oggi consegnata agli archivi giudiziari e che appena l’altro ieri costituiva un elemento essenziale della memoria collettiva. Un lavoro che, tra gli altri, ha il pregio di affrontare il tema della memoria necessaria e del “diritto all’oblio”, senza fare sconti ai cantori della “provincia tranquilla”.

In altre pagine Marco Ruzzi e Gigi Garelli affrontano le due “battaglie” del fascismo, la prima, più nota, per l’autarchia cerealicola, la seconda sull’istruzione rurale. Ruzzi, noto soprattutto per le opere di storia militare, interroga prevalentemente i giornali del tempo, richiamando temi che il dibattito economico non ha ancora esaurito. Un lavoro che ha il pregio non comune della chiarezza. I dati sull’istruzione nelle campagne ritrovati da Garelli, consentono una riflessione non scontata sull’uso strumentale della categoria del “ruralismo” fatta del regime, portando nel contempo elementi e numeri che illustrano l’arretratezza culturale delle campagne cuneesi. Belle le pagine in cui si delineano gli obiettivi didattici, che qualcuno ancora si ostina a ritenere “neutrali”. Quali benefici ha lucrato di lì la politica governativa e conservatrice degli anni Cinquanta e Sessanta, viene da chiedersi…

Le pagine di Michele Calandri sul “1945-1965: la fuga dalla miseria” , vero suggello del volume, sono, forse al di là delle intenzioni, il frutto del dialogo dell’Autore con Nuto; dialogo esistenziale durato più di quarant’anni. L’allievo, di diversa generazione, formazione e percorso politico, ha saputo interpretare la lezione, rigorosa ma sempre sottotono del Maestro. In alcune pagine, come quelle sull’istituzione della “Commissione parlamentare d’inchiesta sulla miseria in Italia e sui mezzi per combatterla (1951-1952)”, pare di risentire le parole, amare, documentate, senza enfasi, di Nuto Revelli, che il mondo della miseria aveva lungamente interrogato.

Impossibile qui richiamare la ricchezza di informazioni, specialmente di quelle provenienti dalla disamina delle carte dell’Ufficio montagna della Camera di commercio, ma una sottolineatura meritano per noi i riferimenti a Dronero ed alla Valle Maira, che l’autore ben conosce anche in ragione degli studi fatti qualche decennio fa nei nostri archivi e non ancora superati.

Luigi Bernardi

Falci, tra passato e futuro

falci Dicono di noi … Un’articolo sul settimanale di Repubblica


Capita ti tanto in tanto che quotidiani o riviste nazionali ed internazionali si occupino del nostro territorio e delle sue peculiarità. Il settimanale “il venerdì di repubblica” nel numero del 15 agosto ha dedicato la rubrica “Antichi mestieri” alle Falci di Dronero. Un articolo a due pagine di Maria Pace Ottieri che traccia una breve storia di quella che, a partire dagli anni ’20 del secolo scorso, fu una delle più grandi aziende droneresi arrivando ad impiegare negli anni ’80 oltre 350 persone, per poi ripiegare decisamente tra crisi locali ed internazionali e concorrenza estera fino alle dimensioni attuali.

Rilevata dalla brianzola Calvi Holding SpA, l’azienda dronerese continua tuttora la produzione di falci, circa 300 modelli diversi a seconda degli usi cui sono destinate, commercializzate soprattutto su mercati agricoli esteri. Accanto alla produzione tradizionale, la giornalista, pone l’accento su nuovi progetti posti in essere dalla proprietà. In particolare, tra questi, ha evidenziato “Prometheus” l’idea di insegnare lo sfalcio a mano in determinati settori agricoli come esperienza si sostenibilità ambientale: silenzio, manualità e un raccolto più sano.

Il progetto – cui collaborano anche Slow Food e l’Università di Scienze gastronomiche di Pollenzo – è diventato un marchio di qualità ed è inserito, ad esempio, sull’etichetta di un vino di pregio come il Barolo. Un’esperienza di re-introduzione è la vigna Cannubi di Barolo, dove la Cantina Borgogno del sig. Andrea Farinetti, sta praticando lo sfalcio dal 2017 e vedrà l’uscita del primo barolo son logo “sfalciato a mano Falci” nel 2021. Una sperimentazione che ha dimostrato l’utilità del taglio manuale per migliorare pacciamatura, umidità e salubrità della vigna ed è quindi diventata una pratica.

RD

Intervista ad Anna Astesano

ragazzi In una domenica qualunque, a Dronero, abbiamo avuto il piacere di incontrare per un’intervista Anna Astesano, arpista e giovane talento della musica classica.

Diplomata con il massimo dei voti al conservatorio “Ghedini” di Cuneo, classe 1993, Anna Astesano collabora con alcune delle migliori orchestre europee: Orchestra Luigi Cherubini, orchestra del Teatro alla Scala di Milano e London Philharmonic Orchestra. Diretta da importanti maestri della musica classica, tra i quali spicca il nome di Riccardo Muti, si è esibita nei teatri più prestigiosi di tutto il mondo. Scopriamo insieme la sua brillante carriera.

La prima domanda è d’obbligo, perchè ha scelto l’arpa?

Quando ero piccola ho frequentato il corso “Musica come gioco”, a Dronero. Qui ho avuto modo di “incontrare” quasi tutti gli strumenti, però nessuno mi soddisfaceva particolarmente. Ero indecisa tra la batteria e l’arpa, infine ho scelto quest’ultima, sopratutto grazie ai corsi dell’Istituto di Musica di Busca. Fin dall’inizio sono stata molto convinta della mia decisione.

Quindi il suo percorso musicale inizia a Dronero?

Si, a Dronero ho seguito il corso di “Musica come gioco” per un anno e mezzo, dopo ho iniziato i corsi a Busca. Mi ricordo che fin da bambina ero interessata di più alla musica che alla pallavolo.

Dopo Busca si è iscritta al conservatorio “Ghedini” di Cuneo?

Ho avuto la fortuna di entrare negli anni del vecchio ordinamento, allora frequentavo la terza media. Quando entrai in Conservatorio iniziai a frequentare i corsi del terzo anno, quindi me ne mancavano ancora sei per il diploma. Il primo anno dovevo viaggiare continuamente da Dronero a Cuneo. Quando mi sono iscritta al Liceo Scientifico tutto è diventato più comodo. Mi sono diplomata l’anno della maturità, in seguito ho trascorso un anno colmo di attesa: ho iniziato a frequentare dei corsi di specializzazione a Cuneo, inviando al contempo delle richieste per studiare all’estero. Ho vinto l’audizione per integrare la classe del CSNMD (Conservatorio nazionale superiore di musica e danza) a Lione, dove sono rimasta 4 anni: è stato un periodo di studio “matto e disperatissimo” per il perfezionamento della tecnica. Ho conseguito anche una laurea in Musicologia presso la Facoltà di Lettere dell’Università di Lione. In quel periodo, inoltre, facevo spesso la pendolare tra Lione e Milano.

Per l’Accademia del Teatro alla Scala?

Si, quando ero a Lione ho fatto domanda, sinceramente con poche speranze, per l’Accademia del Teatro alla Scala di Milano. Contro ogni mio pronostico ho superato le audizioni. Mentre a Lione perfezionavo la tecnica da solista, all’Accademia del Teatro alla Scala, invece, apprendevo meglio che cosa significhi suonare in un’ orchestra.

Quando ha capito che la musica sarebbe stata la sua vita?

L’anno della maturità. Ovviamente avevo qualche dubbio, come alternativa desideravo iscrivermi al corso di laurea in Lingue Orientali a Trieste. Comunque, grazie al mio lavoro, oltre l’inglese, ho imparato altre due lingue: il francese e il tedesco.

Parliamo ora dell’Orchestra Luigi Cherubini. Come è iniziata questa avventura? Cosa ha provato incontrando e lavorando con un “gigante” della musica classica come Riccardo Muti?

La mia avventura è incominciata con una prima selezione: eravamo presenti in 80 e siamo rimasti soltanto in 5 per la finale. All’ultima audizione era presente Riccardo Muti, molto serio e formale, che mi ha scelto personalmente come prima arpa dell’orchestra. La prima produzione con la Cherubini è stata in Giappone: metà dell’orchestra era formata da musicisti della Cherubini, l’altra metà da musicisti giapponesi. Suonavamo in diretta TV e radio dal Tokyo Metropolitan Theatre. Ricordo che in programma avevamo arie di Verdi e il prologo del Mefistofele di Boito. Il contratto con la Cherubini, per ogni musicista, dura tre anni, Riccardo Muti ha richiesto che rimanessi un anno in più.

Cosa si prova a suonare durante l’esecuzione di un’ opera?

L’arpa non suona di continuo, al contrario ad esempio del violino, il quale ha pochi momenti di pausa, ma quando interviene spesso è solista. È importante conoscere bene l’opera e, sicuramente, per questo motivo dal punto di vista della concentrazione è moto stressante.

“Concerto per l’Expo”, con l’Accademia della Scala, e il concerto in Iran, con la Cherubini: le andrebbe di raccontarci queste avventure?

Per il concerto dell’inaugurazione dell’Expo, ricordo che gli organizzatori ci avvisarono solamente una settimana prima. Faceva freddissimo quella sera e gli strumenti si scordavano molto facilmente. A parte questi imprevisti, è stato veramente emozionante suonare con Piazza Duomo colma di persone. Inoltre, eravamo in diretta mondiale. Di quella sera ho un ricordo molto speciale che non riguarda la musica: per uscire dal palco dovevamo entrare nel Duomo, è stato molto suggestivo poterlo visitare in piena notte, completamente vuoto.
In Iran, con l’Orchestra Luigi Cherubini, suonammo per il 60° anniversario dei patti con l’Italia. Anche in questo caso metà dell’orchestra era composta da componenti italiani e l’altra metà da iraniani. Due settimane prima del concerto, purtroppo, alcuni attacchi terroristici hanno coinvolto la città di Teheran e, per questo motivo, qualche musicista non voleva partecipare. Alla fine tutto si è risolto nel miglior modo possibile e il concerto non è stato annullato. Vedere un mondo così distante dal nostro, e incontrare un cultura diversa, è stato molto interessante: la storia persiana è incredibilmente affascinante. I musicisti iraniani sono più che altro specializzati nella musica tipica del loro paese e sono “affamati” di musica classica. Penso sia illuminante che due culture differenti riescano a suonare insieme.

Progetti per il futuro?

Ho conseguito il Post Graduate Advance Diploma, a Londra. Durante questo corso, che ho potuto frequentare grazie alla borsa di studio del Trinity College, ho seguito uno schema di “mentorship” presso la Royal Opera House, che mi ha permesso in seguito di suonare anche con l’orchestra da prima arpa. Trasferendomi nella capitale inglese ho potuto comprendere la scena musicale londinese: per avere un idea, a Londra sono presenti e attive all’incirca 20 orchestre. Per il mio futuro desidero aumentare la collaborazione con le orchestre.
Ora suono nell’accademia della London Philharmonic Orchestra, un traguardo importante che non mi sarei mai aspettata di riuscire ad ottenere dopo essermi trasferita a Londra solamente da un anno. Il giorno dell’audizione, ricordo, ero senza arpa, per motivi logistici, e ho dovuto suonare con una diversa dalla mia. Ero così impegnata nel recuperare uno strumento quel giorno, che non ho avuto modo di agitarmi, probabilmente per questo l’audizione è andata bene

Durante un concerto, qual’è il momento più difficile e qual’è il momento più emozionante?

Il momento più brutto è sicuramente quando si spacca una corda prima di un concerto: dopo che hai accordato lo strumento per mezz’ora, ritorni sul palco e trovi la corda spaccata. Devi cambiarla in fretta mentre tutta l’orchestra si prepara per iniziare a suonare.
Il momento più bello è quando il direttore ti fa alzare per l’applauso perché hai suonato bene un assolo.

Se dovesse dare un suggerimento ad un giovane che vuole intraprendere una carriera come la sua, cosa consiglierebbe ?

Primo, essere appassionati veramente, perché questo tipo di carriera richiede tanti sacrifici: lavori quando gli altri sono in vacanza, non hai orari fissi e sei tu che insegui il lavoro, cerchi il concorso e non aspetti che sia lui ad arrivare da te.
Secondo, non farsi influenzare da quello che gli altri fanno intorno a te: ognuno deve intraprendere il percorso che ritiene più congeniale e più adatto alle proprie qualità e capacità. Infine cercare un insegnante non per la comodità ma per la professionalità.
Se ci metti tutto te stesso, poi le cose vanno.

Alessandro Monetti

Il nuovo libro di Alain Deneault

Pro “La mediocrazia”: un nuovo termine provocatorio per descrivere la politica dell’oggi

“La mediocrazia” è il titolo del nuovo libro di Alain Deneault, edito da Neri Pozza e uscito nella sua versione italiana lo scorso gennaio. Libro quest’ultimo che può risultare molto attuale e “pungente” soprattutto in vista delle prossime elezioni politiche.
L’autore canadese nella sua opera vuole porre l’accento su un fenomeno emergente, che si innesta innanzi tutto nella politica ma altresì nell’economia e nella vita di tutti i giorni: la vittoria della mediocrità. Vittoria questa, che viene sottolineata sin dalle prime battute del libro: “Non c’è stata nessuna presa della Bastiglia, niente di paragonabile all’incendio del Reichstag, e l’incrociatore Aurora non ha ancora sparato un solo colpo di cannone. Eppure di fatto l’assalto è avvenuto, ed è stato coronato dal successo: i mediocri hanno preso il potere”.
Così il romanzo, dal tono intelligentemente provocatorio, vuole evidenziare come l’uomo mediocre senza grandi conoscenze né capacità, sia riuscito poco a poco a insediarsi ai vertici sociali. L’avvento della mediocrazia, afferma il professore, è dovuto principalmente all’industrializzazione del lavoro sia manuale che intellettuale: tale industrializzazione, con le sue operazioni meccaniche e con l’esecuzione materiale che prende il posto della competenza soggettiva, unifica ogni ambito del sapere e appiattisce l’innovazione.

La vera innovazione invece, si trova eccome nell’opera di Deneault: essa apre al singolo uno sguardo critico nei confronti della società contemporanea ai cui vertici si sono posizionati per l’appunto questi “uomini mediocri”. Non si tratta però di una critica fine a sé stessa poiché le colpe di questo nuovo sistema di potere sono rivolte alla società in persona e in particolare ai cittadini, i quali hanno permesso che tale scalata al successo avvenisse.
Il docente di Scienze Politiche dell’Università di Montréal infatti, afferma come la colpa di questa “vittoria del mediocre” sia nostra. Non mettendoci in gioco nel dibattito culturale e politico per timore di non essere all’altezza o di non poter apportare qualcosa di buono all’ ordine sociale, abbiamo fatto sì che lo standard richiesto risultasse sempre più basso sino a giungere alla totale mediocrità. È così che questa nuova categoria di incompetenti, i quali appaiono però affidabili e rassicuranti, è riuscita a farsi strada.

La soluzione a questo “male moderno”, secondo l’autore, si può trovare attraverso una presa di coscienza soggettiva: vi è infatti un modo per opporsi alla mediocrità della società di oggi ed esso consiste nel dire di no ai compromessi e ai patti di convenienza. Questa riflessione etica, se così si può chiamare, è sicuramente una boccata d’aria fresca ed è portatrice di un messaggio di speranza. Questa speranza è rappresentata dalla fiducia nell’ intelletto umano, che l’autore si augura sia capace di non abbassarsi alla mediocrità quando quest’ultima appare la scelta più rassicurante. Intelletto che, nonostante gli standard imposti dall’ alto, deve essere in grado di superare i propri limiti e agire con coscienza, per elevarsi a fini nobili senza mai cedere alla comoda mediocrità.

Giulia Beltritti

Valle Stura, una storia di valanghe

Pro Un singolare episodio del 1775

L’età presenta tanti inconvenienti ma è anche fonte di simpatiche sorprese. Vi domanderete da cosa nasce questa affermazione. Inutile dilungarsi in esemplificazioni, ma una eccezione mi sento di farla, forse perché stimolato da una coincidenza stagionale. La sorpresa in cui sono caduto di recente è infatti legata a una storia invernale, vale a dire a quella stagione che abbiamo appena superato. Di più: il legame è rappresentato da quel fenomeno tipico di ogni inverno, presente o passato, che lega idealmente i giorni invernali: la neve e con essa le valanghe.
Noi tutti, lettori de Il Dragone, con le nostre radici o frequentazioni montanare, conosciamo il fenomeno, alimentato dalle cronache giornalistiche. L’enciclopedia alpina lo definisce “caduta di un cumulo nevoso” e ne specifica le tipologie. Il fenomeno caratterizza i nostri inverni alpini segnalandosi purtroppo il più delle volte per i disastri umani e materiali che si lascia alle spalle. Anche la recente invernata, purtroppo, non ne è stata avara.
Con questa premessa, legittima è la domanda: su quale base si è collocata la sorpresa con cui ho aperto il mio scritto? Chiarito subito che il sottoscritto non è stato vittima di valanghe o slavine, mi sono però incontrato con una storia che ha avuto la sua incredibile vicenda proprio in una valanga, anzi, in tre valanghe cadute in successione tanta da avere gli effetti di unico tragico fenomeno. Il quale fenomeno riuscì tanto singolare da essere ricordato a distanza plurisecolare. A questo punto sento il dovere di invitarvi a un passo indietro. E’ il 1989 quando, ecco la sorpresa, la ben nota rubrica “Specchio dei tempi” de La Stampa pubblica una lettera del sottoscritto. Tema: una colossale valanga che in Valle Stura aveva seppellito la frazione di Bergemoletto, in un vallone della vicina Demonte. E’ una valanga la cui memoria sopravvive nel tempo (si verificò nel 1775) e la cui singolarità di effetti giustifica che un lettore, nella circostanza il sottoscritto, ne scriva su La Stampa dopo oltre due secoli e ancora oggi si diletti nel farne la storia su Il Dragone. Eccola.

“Bergemoletto, piccola borgata a 1300 metri di quota in Valle Stura, presso Demonte. E’ il giorno di San Giuseppe del 1775. L’inverno ha scaricato per settimane metri di neve e un improvviso tepore provoca la caduta di ben tre valanghe che in rapida successione seppelliscono gran parte dell’abitato.
Anna Maria Roccia, 40 anni, i figli Margherita di 11 anni e Antonio di 5 e la cognata Anna di 24 anni, restano prigionieri nella stalla che soltanto parzialmente crolla. Il muro ove vi è la mangiatoia e la trave del colmo hanno retto sotto una massa nevosa che a conti fatti risulterà di circa 25 metri. Inutili i tentativi dei soccorritori di raggiungere le case e le presunte vittime (mancano all’appello 22 persone). Le donne hanno 15 castagne. Per fortuna con loro vi sono due capre, di cui una partorirà durante la prigionia. Nutrite con paglia forniranno il latte. Dopo una settimana il bimbo muore, le donne, rifugiate nella mangiatoia, perdono il senso del tempo in condizioni incredibili di umidità e disagio, la neve sgocciolante ovunque, in un’alternanza di disperazione, depressione e molta preghiera.
Il 18 aprile il disgelo consente i primi lavori di scavo. La notte del 25 uno dei cognati sogna Anna Maria che lo chiama al soccorso. Impressionato, corre, e con altri si butta a scavare. Una pertica affonda sulla verticale della stalla senza trovare ostacolo e lascia giungere una flebile voce…
Curate dall’intelligente medico Nicoletti di Demonte, le due giovani si ripresero rapidamente, mentre Anna Maria conserverà i segni dell’avventura.”
Non vi è nulla da aggiungere. Il ricordo dell’antica valanga serpeggia ancora, in particolare tra le generazioni anche non locali legate alle antiche memorie, memorie che, ne sono convinto, è bello conservare.

Alberto Bersani

Immagine: Il disegno delle sepolte vive sotto la valanga tra le rovine della stalla al Bergemoletto sul frontespizio di un trattato di Ignazio Somis del 1778.

Racconto d’estate

nizza Nel mese di Agosto, quando normalmente le notizie sono poche, nei giornali fioriscono i racconti.
Questo il racconto che vi proponiamo.

Primo capitolo. Un bel cane di grossa taglia vaga sulla tangenziale di Fossano in una limpida mattina di agosto, un automobilista lo scorge nel momento in cui si appresta a percorrere la rampa di immissione alla tangenziale, la velocità è limitata ed il cane si trova, proprio in quel momento, sulla destra della carreggiata. Stringere la bestia impaurita verso il guard-rail non è molto difficile, lo spazio è sufficiente, l’automobilista scende e si avvicina al cane che si lascia facilmente accarezzare, è bagnato, un po’ sporco, ma non è in cattive condizioni. È scappato? è stato abbandonato? chi lo sa! Proprio in quel momento si ferma una furgonetta, si tratta di un elettricista che si sta recando al lavoro. Con un pezzo di filo elettrico i due improvvisano un guinzaglio, il cane è mansueto e si lascia docilmente infilare il collare di fortuna, è assolutamente importante impedire che per un nonnulla il cane si spaventi e si metta a correre di nuovo per la strada.

A questo punto si apre il secondo capitolo. Uno dei due, mentre il secondo coccola il cane, telefona al 112, la telefonata viene passata alla stazione dei Carabinieri di Fossano. L’automobilista aveva già vissuto un’esperienza simile, telefonare ai Carabinieri perchè presenti sul territorio, informarli su una situazione potenzialmente pericolosa per la circolazione aumenta la probabilità che la macchina burocratica si muova più velocemente. Infatti prontamente il carabiniere al telefono contatta il canile di competenza che deve intervenire in casi come questo.

Il canile non risponde, le chiamate si ripetono, ma il risultato non cambia. “Che facciamo adesso brigadiere?” “Già che facciamo?” risponde il brigadiere. Nasce uno scambio di frasi, fitto fitto, tra i due, entrambi cercano una via di uscita ad una situazione che si sta complicando, l’elettricista nel frattempo telefona al cliente da cui era diretto inventando una scusa per giustificare il ritardo, stessa cosa fa, di lì a poco, l’automobilista che a quell’ora avrebbe dovuto già trovarsi a Torino. Dal cappello del brigadiere spunta una soluzione “tra Fossano e Marene c’è un canile, portatelo lì, poi in qualche modo si troverà il modo di sbrigare la parte burocratica”. A questo punto i due devono caricare in macchina il cane, l’operazione non è banale l’animale è giovane e robusto, con una signora dentatura, purtroppo è difficile spiegargli che lo stanno salvando da una brutta fine.
Il guinzaglio di fortuna è quanto mai di fortuna e ad un primo tentativo di trascinamento il cane pianta ben solide le zampe in avanti, che fare? Una coperta la soluzione, buttata una coperta per terra, il solito plaid che tutti hanno nel baule, i due portano il cane sopra, prendono i quattro angoli ed alzano la coperta, il gioco è fatto, il cane così “barellato” viene portato in auto ed i due partono alla volta del canile.

Pochi chilometri e finalmente trovano il canile, scampanellata, arriva l’addetto che li gela all’istante, “non possiamo accettarlo, non abbiamo competenza”. Caspita, proprio adesso che sembrava fatta di nuovo in alto mare. Intanto il cane viene fatto scendere, incomincia a giocare con alcuni gatti, nella sua innocente incoscienza è il più pacifico e tranquillo di tutti. Bisogna avere l’ok dall’ASL, questa l’ultima novità, ma come si fa a contattare l’ASL? Semplice si chiama il 118 che gestisce anche il servizio di pronto intervento per animali feriti, il nostro non è ferito, ma facciamo finta che lo sia. L’operatrice del 118 non sa bene che fare, probabilmente è nuova del servizio, si sente che, sottovoce, chiede aiuto ad una collega, poi comunica ai nostri due che avrebbe provveduto a contattare il veterinario di guardia. Nel frattempo l’addetto al canile telefona ai Vigili Urbani di Fossano, in fondo il responsabile di un animale abbandonato è il primo cittadino del comune in cui l’animale viene individuato. Mentre il nostro cane continua a giocherellare con i gatti viene sottoposto al controllo microchip, come già i nostri due protagonisti immaginavano, il microchip non c’è, così come non c’è medaglietta o collare. Il tempo passa, ecco che all’orizzonte, quasi in contemporanea, appaiono nell’ordine l’auto dei vigili ed una seconda auto, quella che poi risulterà essere l’auto del veterinario.

I Vigili incominciano a preparare il solito modulo “Dichiarazione Ritrovamento animale abbandonato” (o giù di lì) in cui, rigorosamente a mano, vengono scritti i soliti dati del nostro automobilista, i soliti che mille e mille volte sono stati dettati e scritti, sparsi in mille e più moduli accatastati in qualche scatolone su qualche polveroso scaffale. Intanto il veterinario, che il nostro automobilista ha scoperto essere un suo vecchio compagno di liceo che non rivedeva da un secolo, autorizza il canile ad ospitare il cane e avvia la procedura burocratica.
Per i due protagonisti si avvicina il fine avventura, il cagnone viene preso in custodia dall’addetto del canile, non sa, poverino che gli aspetta un futuro non proprio felice. Certo meglio che finire sotto un’auto, ma pur sempre chiuso in un canile. Pubblichiamo una sua foto sperando che qualche lettore di buon cuore voglia riservare all’inconsapevole protagonista un futuro migliore.
L’automobilista e l’elettricista si salutano, salgono sulle loro autovetture e cercano di recuperare il tempo “diversamente impiegato”, siamo sicuri che non lo considerano “tempo perduto”.
Ma come in ogni racconto che si rispetti non può mancare “la morale”. Siamo un popolo strano, un popolo di “singoli”, capaci di slancio, di inventiva, capaci di andare anche molto oltre le mansioni e le direttive specifiche, come si usa dire oggi, “problem solving”.

In fondo il carabiniere poteva semplicemente limitarsi a continuare con le telefonata al canile “fantasma”, invece si è inventato una soluzione. Dove però andiamo in crisi è nella visione d’insieme, quando finisce il singolo ed incomincia il collettivo, lì diamo il peggio. Forse molto semplicemente perchè chi organizza il servizio per la collettività continua a ragionare “da singolo”. Recuperare un animale abbandonato non è cosa semplicissima, chi si ritrova in quella situazione, senza attrezzi, magari in giacca e cravatta, ha bisogno che arrivi nel minor tempo possibile qualcuno che prenda in carico l’animale. Le questioni burocratiche, anch’esse necessarie, devono arrivare dopo. Invece nel corso del racconto potete notare come ogni interprete istituzionale si trovi a recitare la propria parte in modo magari diligente, ma in un ruolo circoscritto che ne limita l’operatività.
È un po’ come, prendendo camera in un hotel, si dovesse poi contattare un’impresa di pulizie per far pulire la camera, una lavanderia per gli asciugamani del bagno, un bar per far portare la colazione ed un ristorante per avere la cena.
Per gli hotel non funziona così, per la burocrazia italiana invece sì.

T. Clavus