Me lo ricordo come fosse ora, il giorno in cui nonno decise di morire. Non è che avesse particolari ragioni per passare all’altro mondo, ma non aveva più vita sufficiente a rimanere in questo. «Alla mia età, per andarsene non serve fare gesti eclatanti», mi disse. «Basta abbandonarsi al destino: io ho ormai esaurito i miei giorni, non ho più nulla da fare; anche la legnaia è piena e tutte le cose che vi lascio sono vostre ormai da moltissimo tempo». Detto questo, si mise a letto e non si alzò più. Sul comodino teneva la Bibbia e la Divina Commedia, più, forse per controbilanciare, una raccolta di testi di Angelo Brofferio, il grande anticlericale e compare donnaiolo dell’antica Sua Maestà Vittorio Emanuele II. |
Il giorno in cui si sentì pronto a morire, si fece trasportare con tutto il letto vicino alla chiesa che da San Martino di Stroppo si affaccia sull’abisso. Quando arrivai lo trovai già là, con i capelli e le coperte scompigliate da un vento che risuonava di un suono cupo, echeggiando fra gli alberi e le pareti rocciose.
«Lo senti?», mi chiese. «Mi chiama il destino. Devo andare dall’altra parte». Gli lessi negli occhi una follia che avrei voluto possedere io. Ripensai a quanti matti avevo avuto in famiglia: tutti, in fondo, felici di esserlo. Del resto il mondo è stato disonorato dai presunti sani di mente, non certo dai pazzi sigillati in manicomio: quelli pagano soltanto il caro prezzo dell’essere una minoranza.
Mi promise che, se avesse potuto, sarebbe tornato ogni tanto per uno di quei giri notturni che spesso avevamo fatto. Le chiamavamo “passeggiate a cavallo”, ma in realtà erano soltanto itinerari a piedi, in compagnia dell’asina Magali che, da quando era andata giù per un dirupo, soffriva d’insonnia ma in compenso aveva assunto un portamento davvero regale.
Mi chiese di cantargli Mè ritorn, una canzone di Brofferio che parlava di prigionia. Lo guardai con occhio interrogativo, e lui mi rispose con tono ironico: «La dedico a voi che restate dietro queste sbarre». Io cantai quelle parole che, nonostante tutto, avevano un che di allegro; e quando finii lo guardai sorridendo, ristorato nell’umore. Ma lui, approfittando della mia distrazione, aveva già provveduto a morire.
Il funerale fu molto strano, perché, mentre il prete pregava, gli amici di mio nonno facevano ben poca attenzione: parlavano fra loro e parlavano alla bara, non solo come se il defunto, da dentro, potesse sentire, ma come se potesse anche rispondere, e come se anzi stesse rispondendo davvero. Quando lo misero sotto terra, tutti lo salutarono come si saluta qualcuno che si rivedrà l’indomani. Senza solennità, piuttosto con naturalezza. Tornai a casa con animo inaspettatamente leggero, senza malinconie.
La sera, quando ormai il sole se n’era andato da molto, sentii il solito bussare alla porta. Quando uscii fuori, vidi davanti a me mio nonno in persona. «Questa volta la passeggiata a cavallo la facciamo davvero», disse, e subito vidi che teneva per le briglie un bel cavallo, bianco come la neve, che buttava fuori dalle narici degli spessi sbuffi di vapore.
Ci salimmo sopra e quello fu il più straordinario viaggio a cavallo che io avessi mai fatto. Galoppammo verso Caudano, in linea retta, con gli zoccoli della bestia sovrannaturale che attraversavano il cielo come se fosse la migliore delle strade. Chiesi a mio nonno come fosse il mondo dopo la morte. Mi rispose che non era proprio come l’avevano descritto i preti, ma che comunque un cavallo l’aveva rimediato, e tanto bastava. Il suo tono era tutt’altro che insoddisfatto.
Chiacchierammo moltissimo, di tante cose diverse. Lui non era affatto cambiato, e la cosa mi commuoveva. Avevo paura di stare sognando o di stare impazzendo, ma non era così: era tutto perfettamente vero. Quando ci lasciammo, a due passi da casa, mi prese però una grande tristezza. Come avrei potuto raccontarlo a qualcuno? Nessuno mi avrebbe creduto e forse mi avrebbero anzi rinchiuso in qualche gabbia, come avevano fatto coi miei antenati.
Passando davanti all’osteria, vidi che c’era ancora la luce accesa ed entrai. I suoi amici erano tutti lì; io non resistei e raccontai della notte passata con mio nonno. Dopo un attimo di silenzio, uno di loro mi rispose: «Non è possibile: lui ha giocato tutta la notte a carte con noi». Ancora un istante di silenzio e poi, tutti insieme, scoppiammo a ridere. Ecco come stava sfruttando i suoi poteri di uomo passato a miglior vita: stava facendo, tutte contemporaneamente, le cose che più amava fare. Qualcuno pensò che d’ora in poi sarebbe stato meglio chiudere la casa a chiave, che quello poteva portarti in osteria e, nello stesso tempo, andare a svuotarti la cantina.
In ogni caso, mio nonno non se ne andò mai, perché, da bravo anticlericale, pensava che la «miglior vita» fosse dopotutto quella che aveva sempre fatto.
Ancora adesso è affezionato a questi posti, benché ormai spopolati; d’inverno lo puoi vedere, come una divinità dei boschi, mentre con passo leggero attraversa i crinali innevati. E poi, non appena torno in paese e dal mio comignolo si alza il fumo della stufa, lo sento arrivare a gran velocità in groppa al suo cavallo.
Eccolo, sta proprio venendo ora. E si commuoverebbe perfino il prete, a sentirlo cantare Brofferio, mentre ancora una volta si avvicina alla mia porta:
Bondì, care muraje
teile d’aragn, bondì,
vedd-ve ch’i son tornàje?
Guardéme torna sì…