Cronache dall’età dell’innocenza |
C’è chi dice che Roma sia una grande città, o addirittura una metropoli. Non è vero. La metropoli è roma, con la “r” minuscola, quella delle infinite borgate, dei santi e diabolici quartieracci dove si perpetua una storia inafferrabile di miserie, illusioni, lampi di generosità, fortune effimere che subito precipitano di nuovo nell’ordinario. E si ricomincia daccapo, da secoli, sotto l’impero e la repubblica, sotto il papa e il re, sotto la principesca volgarità di celebrità costruite apposta per gettare alla gente qualche briciola scintillante, così che non il popolo non pensi a quanto grande potrebbe essere, se solo si stufasse di vivere in ginocchio.
Invece la Roma con la “R” maiuscola non è una metropoli, è un paese. Poche strade che uniscono il Quirinale e palazzo Chigi, palazzo Madama e Montecitorio, con uno sguardo a qualche luogo di potere più occulto, dove siedono certi burattinai che non hanno il vezzo di apparire.
La mattina è fresca, il caffè è buono, le scale di marmo sono foderate di un tappeto rosso papale che mette allegria. I deputati attraversano i corridoi della Camera senza fretta; qualcuno è seguito da un collaboratore, altri da lobbysti che perorano le cause di grandi industrie, giornali, fondi d’investimento, agenzie di servizi. Per fortuna, almeno la gente normale se ne sta fuori. Al massimo manifesta in piazza, ma basta chiudere le tendine e le finestre coi doppi vetri e non si vede né si sente nulla. Le elezioni sono lontane, il popolo strepitante può attendere: è il tempo della “responsabilità”, ossia dell’unione fra forze che si pretendevano alternative, e delle “scelte impopolari”, ossia del tradimento delle promesse elettorali e dello smantellamento di quel che resta dello stato sociale, della scuola e della ricerca in nome di un presunto “bene dell’Italia” che è poi il bene dei padroni dell’Italia.
Il giovane deputato si siede al suo posto in commissione. Affissi alle pareti ci sono i ritratti dei padri della patria e altri dipinti che ritraggono le meraviglie archeologiche del paese, ritratte nel loro immortale splendore, mentre nel mondo reale là fuori stanno andando a pezzi. Il presidente entra, la riunione ha inizio. Un deputato che gli siede accanto, e che è già alla quinta legislatura, si diverte a fare previsioni sull’esito del voto per ciascun emendamento. Un parlamentare è al soldo di quella multinazionale, dunque voterà così; un altro è un signorsì di partito, quindi sicuramente voterà così; un altro ancora deve restituire un favore, per cui voterà così.
Il giovane deputato si sente a disagio. Non è esattamente la compagnia di lavoro che sceglierebbe, se potesse decidere liberamente, ma bisogna rispettare tutti, perché sono tutti stati eletti. In realtà sono stati nominati (in barba al popolo) in base a una legge che bisognerà cambiare (e che infatti nessuno cambierà), ma la politica è anche l’arte del non sottilizzare troppo. E poi il presidente di commissione sta facendo un bell’intervento, posato, responsabile, molto ben studiato.
Ed ecco che, sotto i suoi occhi, si compie il miracolo: nelle parole del presidente tutto sembra diventare ragionevole, c’è una spiegazione coerente per tutto: per le pretese delle lobby, per i ricatti della finanza, per gli scambi sottobanco fra politici, per i piccoli favori, per i grandi regali alle banche. E anche per la manomissione della Costituzione, tanto i ritratti dei padri della patria appesi alle pareti mica possono replicare. Nel ragionamento del presidente, esiste un bene supremo del paese che impone di evitare attriti e guai peggiori: il fallimento economico dell’Italia, che è più importante del fallimento economico degli italiani; la sfiducia dei mercati, che è più rilevante della sfiducia del popolo sovrano; il commissariamento da parte dell’Europa (ma non siamo anche noi europei a pari titolo degli altri?).
In nome di questo supremo bene, bisogna fare delle scelte coraggiose. In realtà non ci vuole molto coraggio a tagliare i diritti degli altri, a sabotare l’istruzione degli altri, a far chiudere le imprese degli altri; ma certo questo appello del presidente ha molta presa sui deputati, che si sentono pieni di voglia di lottare, ossia di approvare quel provvedimento schiacciando con prode eroismo un tasto, o sollevando con temerarietà un braccio.
Il giovane deputato per un po’ annuisce, di fronte a quel discorso ad effetto e ai sorrisi di consenso dei deputati che intanto già maneggiano i propri cellulari. Poi, tutto d’un tratto, gli si apre nella mente qualcosa che appartiene a un passato che gli sembra remotissimo eppure risale a pochi mesi fa: la vista della sua valle, delle persone che l’hanno sostenuto e che quasi portandolo sulle spalle gli hanno dato la forza necessaria ad arrivare fin lì. Gente semplice, sincera, che non si fa gabbare: gente che forse si arrabbierebbe sentendo le parole eleganti e ciniche che il presidente ha appena pronunciato. In montagna si guarda sempre con diffidenza a quel genere di persone brave a parlare che ti intrattengono e intanto magari ti sfilano il portafoglio. Fra i suoi sostenitori, su in valle, non ci sono lobbysti, politicanti, finanzieri e industrialoni: quale bene potrebbe arrivare loro da quella legge? Mancano solo pochi secondi al voto, e il giovane deputato non ha ancora deciso.
Caro ragazzo, vota con il coraggio vero, quello della verità, non con quello del cinismo a cui ti invitano certi tuoi colleghi. E la prossima volta prendi anche la parola e difendi la tua gente.
L’età dell’innocenza finisce in un attimo. E nessun presidente potrà mai restituirtela.